Ci sono dei dischi che rappresentano, per l’Artista che li ha creati, una sorta di spartiacque, il raggiungimento di un obiettivo ovvero spostarlo un passo in avanti ancora.  

Era il 2018 quando venne pubblicato il primo capitolo di A mirror  for ashen ghosts, quest’anno Stefano Romagnoli, Carlo Baja Guarienti e Davide Borghi propongono, forse inaspettata, la seconda parte. 

Un disco sfidante, così è risultato sopra tutto per me che l’ho ascoltato senza mai riuscire a sintetizzare, a trovare la vena profonda che lo percorre, se non dopo ripetute prove. Gli Albireon sanno come si raggiunge la vetta. Sanno che bisogna prepararsi, nel corpo e nello spirito, e che il passo deve essere fermo e costante. Che sostare per allargare lo sguardo tutt’attorno non è perdita di tempo, bensì attimo di raccoglimento per richiamare a sé ulteriori forze. Ho fatto così, tante domande, tanti dubbi sono sorti. Necessario un esercizio di umiltà, chiedendo aiuto a loro stessi. 

 

La prima parte di “A mirror for ashen ghosts” venne pubblicata nel 2018 (il riassuntivo “La bellezza di un naufragio” lo seguì di un anno). Ora la seconda parte, ma l’impressione è che entrambi condividano un’origine più lontana.  

Assolutamente corretto, Adriano. La seconda parte, con l’idea di dedicare ogni brano a un personaggio dal destino infelice, nasce per prima, attorno al 2014, periodo nel quale arrivano da Stefano i primi embrioni dei brani più industrial (e penso a ´Nothing Will Die-Joseph Merrick´ e ´Il Volgare Abisso Della Fede-Kaspar Hauser´). In quel periodo iniziamo a valutare l’idea di un disco che, pur con l’usuale sguardo introspettivo di Albireon, riesca anche a gridare, a farsi sentire all’esterno attraverso una memoria condivisa. Nel biennio 2015-2016, benché impegnati con altri lavori (soprattutto ´L’Inverno e l’aquilone´), iniziamo un percorso di selezione dei personaggi da ricordare. Da una quarantina di nomi scendiamo poi a una cerchia più ristretta. Ci rendiamo conto, discutendo tra noi, di come alcuni personaggi siano i protagonisti di storie che ci portiamo dentro fin da bambini e di come altri, invece, si siano ´aggrappati´ alle nostre coscienze nel corso degli anni, attraverso lo sport, il cinema o la letteratura. E se, a quel punto, iniziamo seriamente a lavorare ai brani, l’ispirazione e il destino (come scrivesti tu in una vecchia recensione!) si divertono a scompaginare le carte: a gennaio 2017 trascorro una settimana chiuso in casa a causa di un problema ad un ginocchio e mi accorgo di come i pensieri si stiano coagulando attorno a un nucleo di malessere, di dolorosa introspezione, che decido di esprimere in musica. In pochi giorni registro una decina di tracce sporche, malate, destrutturate, emotivamente devastanti e devastate. Non esistono strutture musicali né testi, collego le chitarre acustiche o elettriche e registro, poi canto i brani semplicemente accendendo il microfono e recitando oppure gridando un male che preme da dentro. Mi accorgo quasi subito di come, in quel crogiuolo di brani così diversi da quanto fatto prima, io abbia probabilmente ´bruciato ´un dolore intimo, profondo e represso che covava dentro fin dall’infanzia, utilizzando elementi di folk, doom e black metal. Un processo irto di spine, ma necessario, perché nelle schegge di quei brani tormentati, sgraziati e sbilenchi, riconosco i visi contorti di ombre che dentro facevano ancora più male. Aggiunti alcuni necessari contributi di Carlo e Stefano, il basso di Egidio Lista di Umbra Aevi e le voci spettrali di Tamar Singer di Zeresh/Cruel Wonders, il disco è praticamente pronto e, trattandosi di un disco così spezzato e afflitto, sento subito il bisogno di farne la ´prima parte´ per il concept che sta prendendo forma e che sarà intitolato ´A Mirror For Ashen Ghosts´. Marco Valenti di Toten Schwan, con il quale in quei giorni iniziamo la nostra fruttuosa collaborazione, lo ascolta e decide di pubblicarlo in cento copie, che andranno subito sold out. Quattro anni dopo anche la ´part two´ giunge alla pubblicazione. In tutto sono stati otto anni dedicati alla catarsi, all’esorcismo dei propri demoni e alla compassione umana, perché questo è in definitiva questo disco in due capitoli: uno sguardo, pieno di umana pietas, oltre lo specchio. 

 

I fantasmi del titolo assumono ora fisionomie definite. Possiedono dei nomi.

Qualcuno ha scritto che possedere un nome vuol dire esistere. Se non hai un nome, pur dovendo contraddire la celebre citazione di Shakespeare sulle rose, non esisti. Se la ´part one´ esprime il dolore di un esercito di esseri umani vittime di abusi psichici e sessuali, di bullismo, di privazione della speranza, rappresentati dalla figura di Dead dei Mayhem, la cui breve vita alla ricerca del sinistro e del macabro sembra essere stata segnata nell’infanzia dal bullismo, nella ´part two´ ogni brano reca un nome. E dietro a quel nome, una storia tragica e infelice. E vorrei, con tutto il cuore, che chi ascolta il disco si senta partecipe di questo dolore, di questa sofferenza spesso inutile. Perché forse, nel comprendere il male che a volte, anche solo con l’indifferenza, infliggiamo agli altri, si possa anche essere persone migliori. Un amico mi ha scritto che dopo aver ascoltato il disco ha sentito il bisogno di documentarsi su alcune delle storie che non conosceva. Ecco, questa per noi è stata una grandissima soddisfazione. 

 

La scelta di abbinare la canzoni a persone, a fatti che le hanno coinvolte, ad umanissime vicende intime e personali ovvero pubbliche di grande impatto comporta una ricerca sugli stessi, ma anche un appropriarsi di emozioni, di sentimenti. Quale è stata la logica che vi ha ispirato nella scelta dei protagonisti di questi canti? 

La scelta è stata dettata dal coinvolgimento emotivo, null’altro. Lessi le storie di Luigi XVII o di Kaspar Hauser da bambino, rimanendo fortemente impressionato dall’infelicità di quei destini e dai risvolti tragici delle vicende. Chi non riesce a non commuoversi pensando ai due cavallini di legno, unico conforto nella buia prigionia di Kaspar o al graduale e progressivo processo di annientamento morale e fisico a cui fu sottoposto il figlio di Luigi XVI e Maria Antonietta? Di più, non riesco a non immedesimarmi in queste vittime degli uomini e del Fato. Il mio allungare una mano verso di loro, oltre lo specchio, è solo un bisogno umanissimo di non farli sentire soli. E quando mi chiedi se è un appropriarsi di emozioni e sentimenti ti rispondo che è così, è sempre stato così. Non è questo il significato più profondo della parola ´empatia´? Poi è innegabile come queste storie parlino a una ´memoria comune´. Chi ha la nostra età non può aver dimenticato Alfredino Rampi. Siamo finiti tutti nel pozzo in quei tre giorni assurdi ed angoscianti, ci siamo finiti tutti insieme e forse non ne siamo mai usciti. Ricordare, testimoniare, imparare è forse anche un’opera di terapia di gruppo che ci permetta di tornare a rivedere il cielo. Inoltre, vicino a personaggi noti, le vicende di Anna Pardini e Leonardo David ci sono sembrate importantissime, proprie perché rimosse o dimenticate. 

 

Quali sono stati gli episodi che più vi hanno impegnato, sia dal punto di vista compositivo che da quello esecutivo? 

Come dicevo il disco ha avuto una gestazione lunghissima, non tanto per le difficoltà tecniche, ma perché il materiale ha avuto bisogno di tempo per manifestarsi. Comporre per noi non è tanto un lavoro di volontà, riguarda invece la possibilità di canalizzare certi suoni e certe entità nel momento in cui decidono di materializzarsi. Tanto che alcuni brani sono stati ´ricevuti´ solo nel 2021, dopo oltre sette anni dall’inizio delle registrazioni. Dal punto di vista tecnico, dosare i vari elementi emotivi di brani come ´Nel gelido abbraccio del pozzo-Alfredino Rampi´ o ´I knew it was you-John Cazale´, è stata una sfida che abbiamo abbracciato cercando di evitare, evocando ricordi e immagini, il morboso ed il macabro e speriamo di esserci riusciti. Così come l’azzardo di fondere, in ´Ghosts of Everest-George Mallory´, il flauto di Carlo che richiama l’aria sottile degli ottomila dell’Himalaya con i campionamenti radio originali ed un finale di chitarre acustiche ispirato ad un’aria barocca francese, che speriamo possa aver reso lo spirito del grande alpinista inglese. Ma tra tutti, forse il brano più semplice, ´Il mio nome è Luigi-Louis XVII´, inizialmente iper-arrangiato ed escluso dal disco perché non ci convinceva, ha trovato la sua forma perfetta attraverso il connubio minimale di piano e voce. È proprio vero che, a volte, la cosa più difficile è togliere. 

 

Possedete uno stile proprio, ormai maturo e riconoscibile. Mi par di percepire però un ulteriore prosciugamento delle trame, apparentemente più fragili. E la componente cantautorale in alcuni brani si è ulteriormente consolidata, forse proprio per dare più risalto alle vicende narrate. 

Grazie per il modo in cui hai seguito l’evoluzione della nostra musica fino ad ora. Ciò che sentiamo però è che questo, insieme a ´I passi di Liù´, debba essere considerato il nostro disco più sperimentale, perché per la prima volta, seguendo il bisogno di rendere noi stessi e gli ascoltatori partecipi delle storie dei personaggi ricordati, abbiamo lasciato che non solo prevalesse l’istinto, ma che dilagasse senza argine alcuno. Questo ha portato a brani spesso dilatati, senza strutture apparenti, quasi elementi da colonna sonora o da documentario. È un disco fortemente ´visuale´, che deve richiamare immagini, visi, avvenimenti. Così come speriamo accada durante gli otto, rarefatti minuti che ha richiesto il ricordo e la commemorazione del dramma di Alfredino Rampi e dello svolgersi delle operazioni a Vermicino, come i sei minuti per Leonardo David, a rappresentare i sei anni di coma seguiti alla maledetta caduta di Lake Placid. I brani più ´cantautorali´ invece sono stati limitati a quei personaggi per i quali le parole servissero, ancora una volta, all’evocazione e al ricordo, senza la pretesa di raccontare la storia in modo didascalico (tranne, ancora una volta, per il piccolo Re Luigi), quanto a suggerire una sublimazione poetica di quanto narrato, cosa che quando ci si trova al cospetto di Pavese e Garcia Lorca può anche apparire presuntuosa. Ed è come dici, si tratta di cantautorato asciutto, minimale, retto da poche, sentite, trame strumentali, che ci riporta forse ai tempi lontanissimi de ´Il volo insonne´. Ma è tutto in funzione del progetto in essere, il prossimo disco potrebbe essere, ancora una volta, differente. 

 

La traccia “My final silence”, Marco Corbelli/Atrax Morgue (nella prima parte dedicaste una canzone a David Gold). Uno di quegli episodi di rottura ove è chiara l’intenzione di rendere omaggio ad un Artista con il quale avete condiviso quello spirito indagatorio che fa ancora parte del vostro approccio alla musica. 

Marco è stato uno dei primi nomi a venire fuori e a stabilizzarsi nell’elenco dei personaggi da ricordare, proprio per una questione di rapporti personali. Non so se apprezzerebbe quel velo di chitarra acustica e tastiere che abbiamo utilizzato per stemperare il noise con un po´ di tenerezza, resta il dispiacere per una vita finita comunque troppo presto e questa è la nostra carezza per lui, senza dimenticare i suoni e le asprezze che hanno caratterizzato la sua produzione. Di certo una profonda inquietudine è ciò che Albireon e Atrax Morgue possono aver avuto in comune, nel ricordo però prevale il lato umano e personale. 

Avete fatto ricorso anche a porzioni pre-registrate, che sovente si sostituiscono nel ruolo del narratore. A quali fonti avete attinto? 

I campionamenti sono stati frutto di lunga ricerca e selezione e abbiamo attinto da tantissime fonti diverse, film, documentari, telegiornali. Alcuni campioni sono abbastanza ovvi e appariranno subito chiari a chi ama come noi certi registi o certe atmosfere, altri sono invece decisamente meno evidenti e più discreti. Ci è sembrata una scelta funzionale alla ´narrazione´ utilizzare queste fonti sonore, che, come dicevo, hanno richiesto anni di ricerche e valutazioni su come utilizzare materiale che va a toccare situazioni così delicate. Un esempio per tutti: credo che ricordiamo tutti la voce di Alfredino, catturata dai microfoni della RAI a 60 metri dalla superficie, ma utilizzandola nel disco avremmo infranto quel pudore e quel rispetto che da sempre credo ci guidi nell’arte e nella vita, oltre a rappresentare una scorciatoia da pavidi per colpire l’ascoltatore. Proprio per questo, nel brano, ci sono le voci di tutti gli altri protagonisti, ma non quella del piccolo Alfredo. Quella l’abbiamo tutti dentro, basta volerla ascoltare. 

 

Quanto dell’esperienza condivisa con Zeresh nello split “No longer mourn for me” si è riversato in questa seconda parte di “A mirror…”? 

Non saprei rispondere, si tratta di progetti completamente separati. Probabilmente un certo grado di ´semplicità´´ delle strutture è in entrambi i lavori segno di un nostro modo di comporre nel biennio 2018-2020 (periodo nel quale i brani ´cantautorali´ di ´AMFAGPT´ e di ´No longer mourn for me´ sono stati composti), quasi un desiderio di semplificare, focalizzandosi sull’emotività di poche, basilari strutture di chitarra o di piano ammantate comunque da una certa ´sporcizia sonora´ di fondo. Devo comunque ammettere come l’incontro con Tamar abbia assolutamente dato nuova spinta al mio desiderio di lavorare sull’introspezione in musica. Registrare con lei mi ha permesso di aggiungere profondità, di non avere paura di esprimere anche in forme sgraziate o rumorose il mio disagio o la mia malinconia, cosa che a lei e alla sua voce spettrale ed emotivamente straziante sembra essere naturale. E credo che il suo talento mostruoso diventi evidente ascoltando i lavori di Zeresh e Cruel Wonders. 

 

Ancora una volta Massimo Romagnoli, i dipinti del quale costituiscono un elemento di continuità fra le due opere. Una cura che avete sempre riservato ai vostri dischi.  

Spero di non peccare di presunzione se dico che i due quadri utilizzati per le due parti di ´AMFAG´ sono opere straordinarie, dalle quali Marco Valenti di Toten Schwan ha ottenuto artwork perfetti. Massimo ci accompagna con le sue visioni oniriche da sempre, ma qui credo si sia superato. Anzi, penso proprio che l’idea dello specchio che permette la comunicazione tra il nostro mondo e quello di chi è passato oltre derivi proprio dalla copertina della ´part one´, con il suo mondo di spettri, decadenza ed uno sguardo rivolto all´altrove. Non c’è mai nulla lasciato al caso nei nostri dischi ed è anche il motivo per cui preferiamo che la nostra musica venga diffusa su formato fisico, perché queste immagini sono il sentiero che conduce nel mondo in cui speriamo di portarvi ogni volta che vi apprestate ad ascoltare un nostro lavoro. Ricordo benissimo come, la prima sera che mi recai a casa di Stefano per vedere se esistevano i presupposti per collaborare musicalmente, notando i meravigliosi quadri alle pareti gli chiesi chi fosse l’artista, scoprendo che si trattava di suo fratello Massimo.  Ne rimasi talmente affascinato da chiedergli subito di lavorare con noi a un dipinto per ´Le Stanze Del Sole Nero´ e, dopo oltre vent’anni, siamo ancora qui. 

 

Possiamo definire “A mirror for ashen… two” l’episodio più sfidante di una carriera come la vostra, comunque caratterizzata da prove di grande contenuto?

Non lo so, posso però dire che in molti lo hanno definito un disco ambizioso. Sicuramente perché´ in ´AMFAGPT´ non ci poniamo problemi di genere, spaziando dal dark folk, al cantautorato, fino all’industriale ed all’ambient. E per la prima volta forse, l’occhio interiore si rivolge all’esterno. Che tutto fosse già iniziato con la dedica a Marco Pantani con ´Le rose di Acrom´ del 2005 o le citazioni di Magda Goebbels e Kaspar Hauser ne ´Gli aironi´ è possibile, di certo è il disco di Albireon che ha richiesto più lavoro di ricerca, di classificazione, di razionalizzazione. In questo non c’è stata nessuna fatica però, perché anche un progetto così strutturato obbedisce a un profondo desiderio di esprimerci e un sincero amore per ciò che facciamo insieme, quindi sì, un cammino lungo, ma che ci sembra essere durato un istante, come forse tutta la storia di Albireon che si avvia verso il quarto di secolo. L’ambizione che perseguiamo è un po´ quella del poeta di Carducci, che forgia con le sue abilità un dardo che scaglia verso il sole, e trova la sua ricompensa nell’osservare come ´in alto ascenda´. Ecco, commuovermi fino alle lacrime ascoltando un nostro disco, creando la musica che sento e che vorrei ascoltare, è l’unica ambizione che abbiamo. Se questo poi trova condivisione con un pubblico piccolo ma fedele e appassionato, che ci presta il proprio cuore e la propria sensibilità, non possiamo davvero desiderare di meglio. 

 

Chiudo con un quesito forse scontato, potrà esserci un domani una terza parte? 

No anzi, non è una domanda scontata. In realtà non mi ci siamo proprio posti il problema perché il progetto era pensato in due parti e crediamo che non ne occorra una terza, ma se dovessero svilupparsi dei temi che vadano in questa stessa direzione non vedrei perché non valutarlo. Di certo posso dirti che il prossimo disco, il decimo di Albireon, riprenderà certi temi cari al neo folk più classico e bucolico, perché sentiamo un grandissimo bisogno di purezza, di bellezza e forse di semplicità e quindi non rivolgeremo per un po´ lo sguardo verso queste terre desolate, ma davvero, non si può mai sapere. Per ora ringraziamo di cuore te e i lettori di Ver Sacrum per la tua attenzione e per la tua voglia di approfondire la musica di Albireon. 

 

Parole appassionate. Anche veementi. Vi prego di riprendere la precedente intervista, 24 maggio 2019, tre anni fa. Il quadro sarà ancor più delineato. Artisti e Uomini veri.